Fa freddo, non sorprendentemente. Le cuffie un poco proteggono ma non bastano. Il cappuccio della felpa tiene schiacciati i capelli, facendo tuttavia entrare dell'aria gelida sulla nuca. Dora cammina veloce in questa città dove tutto è più veloce di lei. Il suo bioritmo extraurbano non si è mai messo in fase con il dinamismo della città, generando (in)comprensibili ritardi in ogni suo impegno. Non sa con precisione che ore siano perché il telefono le è stato sequestrato dopo l'ennesimo quattro in inglese. Di orologi da polso non se ne parla, sono da lei considerati retaggio di secoli passati che non le appartengono.
Nonostante la musica avverte con precisione tutti i rumori urbani a cui non si è ancora totalmente abituata. Sono anni ormai che i suoi piedi calpestano asfalto e non più sterrato ma per le sue orecchie l’ambiente cittadino rimane una scudisciata sonora continua. I motori delle vetture sempre più fuori luogo e fuori tempo, il vociare cafone dei turisti e le videochiamate dal volume planetario dei passanti, gli eterni operai impegnati in eterni cantieri, il vento che si insinua tra i palazzi e che sbatte sulle vetrate, la brutta musica che esce dai negozi le cui porte sono dissennatamente lasciate aperte nonostante la stagione. A Parigi anche i semafori fanno rumore, sostiene. Tutto questo rende esasperante la camminata di chi come lei vorrebbe solo spostarsi, e il più discretamente possibile, da un angolo all’altro della città, da una rive all’altra.
Sopravvissuta alla sbornia dei giochi olimpici, la città si è riappropriata dei propri spazi e si gode un numero di turisti compatibile con i metri quadri dei marciapiedi. I grandi palazzi, rimessi a nuovo per l’occasione centenaria, si pavoneggiano, nell’aria rigida di dicembre, dei ritrovati colori e dell’originale grazia. I residenti, estenuatisi durante l’estate fino a detestare la loro città divenuta invivibile, volgono ora lo sguardo fiero a destra e a sinistra per gustare il senso di riconquista, stretti tra sciarpe e colli di pelliccia. Si sente il Natale che preme sulle persone in strada. Le famose luci parigine, delicate e signorili, si alternano a qualche neon multicolore scappato all’occhio inflessibile della polizia urbana. Gli addobbi delle vie interne degli arrondissements, quelle che cercano di preservare l’atmosfera da villaggio celtico, con la successione metronomica di macellaio, fiorista, pescivendolo e boulanger, rendono ospitale e domestica la metropoli che si fatica altrimenti a dominare nella sua grandezza. Rive gauche – austera – e rive droite – eclettica – rivaleggiano anche in questo, interpretando in modo diverso la loro stagione invernale.
I riflessi delle scure nuvole che hanno come scortato la città a partire dall’autunno, spingono i viandanti verso un riparo, bar o casa che sia. Dora raggiunge il dehors del traiteur libanese, supera il fiorista dei fiori finti, scarta un ciclista che si crede in fuga nel Tour de France, getta meccanicamente un’occhiata alla vetrina dell’immobiliare, le cui proposte sono rigorosamente selezionate nella sola riva gauche. Non sa nemmeno lei il perché ma trova gli annunci delle agenzie immobiliari parigine più attraenti di una cioccolata calda con crema Chantilly. No, forse non così tanto ma sono così ben composti che anche lei, quattordicenne con forti ambizioni di andare a vivere da sola oggi stesso ma senza la benché minima possibilità reale di farlo, cerca voluttuosamente tra le foto la casa dei suoi sogni. E se non necessariamente una casa, per la quale c’è bisogno in effetti di avere un piano a medio termine per la propria esistenza – cosa di cui è del tutto priva al momento – s’accontenterebbe di uno spazio vitale tutto suo, che vada oltre la cameretta rosa trasferita intatta a Parigi dalla campagna torinese. Uno spazio minuscolo dove potersi proteggere dalle invasioni ninja del fratello, dalla prepotente pretesa del papà di lasciare sempre aperta la porta della camera, dal tono scorbutico della mamma quando chiama tutti a tavola per un imperdibile passato di verdura. Silenzio, ecco cosa le piacerebbe, una tana di silenzio dove poter stare e pensare alla sua velocità. A Parigi anche i pensieri fanno rumore.
Giunge al portone di casa, digita il codice senza guardare, spinge la pesante porta e sbam!, si scontra con un insieme disordinato di borsa, sciarpa, borraccia, libro, chiavi, telefono, occhiali, seconda borsa, capelli. La proprietaria di questo caos si chiama Leila. Alta, bruna, pelle color seppia, due occhi grandi, due mani ancora più grandi, una trentina d’anni. Leila è una vicina di casa, di quelle che saluti in ascensore con voce e occhi bassi.
- - Scusami tanto, sono così di fretta.
- - Figurati, ti aiuto.
Leila manifesta un francese naturale. Dora arrotonda ancora le erre con morigeratezza sabauda. Abbassandosi sulle ginocchia per contribuire al recupero di quel vario materiale, Dora inspira un profumo di rosmarino, di camino acceso, di tè affumicato. Sentori che la trasportano alle sue passeggiate d’infanzia, tra la neve e i grandi pini del bosco dietro casa. Leila deve aver detto qualcosa ma Dora non l’ha sentita, perduta nel profumo d’inverno. Il tempo di chiederle di ripetere e Leila è già stata inghiottita dal buco nero là fuori dal portone. Si ritrova con un oggetto indecifrabile in mano – un diario? un portagioie? – evidentemente sfuggito alla raccolta precipitosa. Convive e lotta ventiquattro ore con la curiosità ossessiva di chi cerca ispirazione in un deserto di emozioni. Il giorno seguente si presenta nervosamente sorridente davanti alla porta rossa dell’interno del terzo piano. Suona il campanello, facendo cadere l’oggetto per agitazione maldestra.
- - Ciao, che sorpresa.
- - Sì, ecco, ciao, ieri ti era caduto questo e non ho fatto tempo a ridartelo.
- - Grazie, non lo trovavo più. Dora, giusto? Vuoi entrare?
- - Volentieri ma solo qualche minuto che devo finire i compiti.
L’obiettivo era raggiunto. L’idea, arrovellatasi nelle ultime ore, era dare un’occhiata a dove e come vive sulla rive gauche di Parigi una donna adulta («A che età io potrò definirmi adulta? Diventare adulta è qualcosa che ti capita mentre sei impegnata a fare altro?»), che abita da sola («Come faccio a sapere che abita sola? Magari ha un fidanzato, una fidanzata, un cane, una vecchia madre che non ho mai visto.») e che pare avere una vita piena («Io per il momento ho solo l’armadio pieno, di vestiti brutti tra l’altro.»).
- - Sai che ore sono per favore? – chiede Leila, sparita già in un’altra stanza.
- - No, mi spiace. – risponde la più giovane, distratta dai libri, dai soprammobili, dai mille oggetti lasciati per casa e che trasmettono un disordine vissuto con piacere.
- - Non porti l’orologio? Un telefono? – la voce sembra venire dal fondo di un armadio senza fine.
- - Storia lunga, lascia perdere. – identifica su un tavolino almeno altre tre scatole dallo scopo incomprensibile, simili a quella che l’ha portata lì.
- - Tu abiti al quinto piano, vero? – rumori sincopati di tacchi fanno presagire il rientro imminente di Leila.
- - Sì, giusto. – foto di viaggi, di amiche, di matrimoni altrui. «Niente fidanzato, sembra».
- - Vedo sempre tua mamma che accompagna tuo fratello a rugby. O almeno, credo sia tua mamma che accompagna un bambino che credo sia tuo fratello.
- - Se sono entrambi biondi, con un’aria sperduta e non particolarmente intelligente, sì, sono i miei famigliari.
Leila ricompare in sala, fa mostra d’apprezzare la battuta e il suo viso si fa morbido, complice. Leila deve correre da qualche parte, come al solito. Dora scende le scale insieme a lei, si salutano e, senza nulla aggiungere, entrambe pensano che il loro abbozzo di relazione potrebbe svelarsi foriero di sorprese. La loro testa si riempie di un brusio fatto di mille eventualità. A Parigi anche le amicizie fanno rumore.
Nelle settimane successive le due giovani donne si incrociano, chiacchierano, ridono. Dora fatica a trattenere la sua curiosità e avrebbe voglia di inseguire Leila ogni volta che la intravede entrare o uscire da casa.
Natale, nel frattempo, si è fatto pericolosamente prossimo, aumentando l’intensità degli scambi tra mamma e papà sull’organizzazione necessaria per rientrare in Italia e passare le feste con i parenti. Sostengono che è sempre stato così, sin da quando vissero a Parigi qualche anno da fidanzatini. Torniamo o no, quanti giorni facciamo in Italia, da chi andiamo la veglia e da chi a pranzo il 25 e via. Serate infinite di ipotesi, minacce, compromessi, ripicche e rilanci dell’ultimo minuto. Per poi rispettare ogni anno lo stesso programma con rigore monacale. Dora ha piacere a rivedere i nonni e i cugini ma il clima natalizio della capitale francese genera un fascino a cui è difficile sottrarsi. Scevro da qualsiasi istanza religiosa, non alieno ovviamente agli abusi commerciali che ci sono noti, pare il distillato elegante di tutto quanto di bello si possa chiedere al Natale nell’emisfero boreale. Una buona base di freddo con punte di caldo rovente nei bar, un generale ammorbidirsi dei gesti degli abitanti altrimenti ostili nel resto dell’anno, gli interni delle case che tracimano all’esterno le luci e i sorrisi. Un’atmosfera di attesa festosa in un ambiente d’armonia.
«Ancora un giorno e poi si parte», pensa Dora tornando da scuola. Salendo dai gradini della metro, riconosce un’andatura e una borsa amiche.
- - Ehi.
- - Ehi ciao.
Il sorriso di Leila si spegne rapidamente, lo sguardo torna cupo verso la strada. «Non è evidentemente una grande giornata», ritiene Dora tra sé e sé. Le spalle leggermente curve, qualche capello fuori posto, gli occhi spenti, tutto questo trasmette senza ambiguità la sua età di donna. «Ha più o meno il doppio dei miei anni, non ci avevo mai riflettuto». Fanno qualche decina di metri insieme, in parallelo e precario mutismo. Dora con la coda degli occhi cerca d’intercettare lo sguardo della compagna di passeggiata e trovare la buona occasione per rompere il silenzio ma Leila l’anticipa.
- - Sai perché questo negozio non vende fiori freschi?
- - No, mi è sempre parso una cosa assurda. Tu lo sai? Tutti i profumi, le varietà, le sfumature dei fiori veri sono favolosi. Anche se tutte le volte che entro da un fiorista, io ne vengo nauseata e vorrei solo uscire rapidamente. Ma arrivare a vendere della plastica, è per me ben triste.
La risposta e la reazione di Dora sono un po’ troppo energiche rispetto al tono della domanda. Se ne accorge e arrossisce.
- - È una bella storia in fondo. – Leila riprende, non toccata dall’eccitazione fuori posto di Dora.
- - Tu come fai a conoscerla?
- - Abito qui da sempre, mio papà non si sarebbe mai spostato dalla rive gauche. Diceva che quando attraversava un ponte sulla Senna, doveva portare con sé il passaporto perché si recava in un altro Paese. Si sentiva straniero.
- - E il fiorista?
- - Era proprio mio papà che comprava regolarmente da lui i fiori per il compleanno di mia mamma e gli anniversari in famiglia. In passato erano fiori veri, il fiorista era giovane – bravissimo dicevano i miei –, con grande gusto. Preparava dei bouquet magnifici e le sue vetrine facevano risplendere la via. A Parigi i fioristi sono sempre stati un’istituzione.
- - E poi?
- - E poi si è innamorato. Normale, dirai tu. Sì, ma dopo i primi mesi di frequentazione, hanno scoperto che la ragazza era allergica ai fiori, non solo al polline, proprio ai fiori, un’allergia rara.
- - E lui ha deciso di non vendere più fiori recisi freschi?
- - Esatto, ha scelto di stare con lei – credo ormai da quarant’anni – e di inventarsi un nuovo modo di portare colore nelle case.
- - Ma la plastica…
- - Non sono di plastica le sue composizioni, sai? Sono fiori freschi che fa disidratare ricoprendoli di lacca, riuscendo così a non perdere la forma e i colori originari. Lui dice che questa lavorazione è un omaggio all’essenza stessa del fiore, alla sua ragione d’essere sul Pianeta, senza il fastidio olfattivo e visivo della marcescenza, che tanti pittori ha in realtà ispirato. Il sabato sera, quando si concede un bicchiere di Chartreuse mentre sistema nel retrobottega le composizioni invendute, lo puoi sentire raccontare a ogni passante straniero, con una certa creatività di vocabolario nelle diverse lingue, che l’idea gli è venuta pensando al giorno in cui ha conosciuto la famosa ragazza, poi moglie. Voleva cristallizzare quell’attimo, quel coup de foudre, in tutte le sue declinazioni sensoriali. La sua è un’operazione artistica.
- - È una storia romantica.
- - Te lo dicevo. È molto rive gauche vecchio stile.
- - Siamo nella città dell’amoooore – smiela Dora.
- - E devi vedere i turisti asiatici, quando capiscono di potersi portare a casa una particolarità parigina che dura più di un macaron, si elettrizzano tutti.
- - A Parigi anche i fiori fanno rumore.
- - Cioè?
- - Storia lunga, lascia perdere.
Dora vorrebbe chiederle perché era così triste quando si sono incontrate ma Leila appare più serena ora che arrivate sotto casa. Avrebbe altre mille domande da porre alla sua nuova amica, il più inaspettato dei regali di Natale. Non ha mai capito ad esempio che cosa fosse quell’oggetto che le era rimasto in mano dopo lo scontro vicino al portone. È fiera di poterla frequentare. Si sente già più grande al solo pensiero di avere una persona adulta con cui chiacchierare – o no –, senza il rischio di essere giudicata. Adolescente è una parola pessima, che bene dà il tono al periodo omonimo. Fa rima con strafottente, negligente, inconcludente. A nessun genitore viene mai in mente di coniugarlo con effervescente, intelligente, intraprendente.
- - Eccoci. Non so se ti vedo domani e quindi buon Natale! – esclama Dora, un po’ circospetta.
- - Buon Natale a te, cara. – risponde Leila abbracciandola con dolcezza genuina.
«Io non so che donna sarò, che persona sarò. Quello che so è che voglio essere bella. Quello che so è che voglio essere me stessa.» È l’ultimo pensiero di Dora, prima di gettare un ultimo sguardo alla via rumorosa e magnificamente natalizia e salire le scale, uno sforzo oggi più lieve.